lunedì 5 gennaio 2015

[Guest post #54] Sergio Pasquandrea & Duke Ellington

 Sergio Pasquandrea sta dando gli ultimi tocchi a un libro sui pianisti jazz. Questa è forse l’ultima occasione di leggerlo su «Jazz nel pomeriggio» prima che la gloria lo raggiunga.

I francesi le chiamano idées reçues, «idee ricevute». Sono quelle che tutti accettiamo, senza mai metterle in discussione. Ad esempio: tutti tendiamo a credere che un artista sbocci, fiorisca, dia i frutti della maturità e poi vada incontro al naturale declino. Paradigma organicista, se vogliamo chiamarlo così.

 Allo stesso modo, si pensa che gli stili seguano una loro placida logica: che al barocco segua il classicismo, al classicismo il romanticismo, allo swing il bebop. Così, per necessità naturale.

 Poi ci si trova davanti a un disco come «Piano in the Foreground», inciso nel 1961 da un Duke sessantaduenne. E ci si accorge che si tratta di un’opera sconvolgente, una delle cose più avanguardistiche mai incise da Ellington. Inaudita non solo rispetto all’intera produzione ellingtoniana, ma anche a ciò che era corrente nel 1961. Ancora più sconvolgente è rendersi conto che Duke raggiunge il risultato lavorando all’interno delle coordinate stilistiche del proprio mondo espressivo. E allora, come la mettiamo con l’evoluzione, la maturazione e il declino?

 Marco ci ha già fatto ascoltare Summertime, dove il filo che collega Ellington (classe 1899) con Thelonious Monk (1917) e Cecil Taylor (1929) è chiaro a chiunque voglia vederlo. Io vi propongo Springtime In Africa, una passeggiata di Claude Debussy e Anton Webern nei territori di Ellingtonia. Come bonus track, aggiungo The Single Petal Of A Rose, un’incantata isola di contemplazione sonora tratta dalla «Queen’s Suite», originariamente incisa in un’unica copia che venne donata personalmente a Sua Maestà Elisabetta II. Finché fu in vita, Ellington si oppose a qualunque pubblicazione commerciale. Coronate o no, Duke sapeva come trattare le donne.

 Springtime in Africa (Bell-Ellington), da «Piano in the Foreground», Columbia 512920 2. Duke Ellington, piano; Aaron Bell, contrabbasso; Sam Woodyard, batteria. Registrato nel marzo 1961.



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 The Single Petal Of A Rose (Ellington), da «The Ellington Suites», Pablo PACD-2310-762-2. Duke Ellington, piano; Jimmy Woode, contrabbasso. Registrato il 14 aprile 1959.



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16 commenti:

sergio pasquandrea ha detto...

Magari fossero davvero gli ultimi ritocchi... comunque la gloria corre m a io sono più veloce di lei

Riccardo Facchi ha detto...

In effetti Ellington è sempre stato oltre le categorie, oltre gli stili e oltre certi schemi critici, non solo nel disco indicato da Sergio, davvero bello, perché si tratta di un genio della musica tout court e se avesse avuto la pelle di un colore diverso sarebbe stato ancor più enfatizzato.
Anche la storia del contributo decisivo di Billy Strayhorn andrebbe discussa se non rivista, perché il livello della sua produzione dopo la morte di "Sweet Pea" è a dir poco stratosferico. I due ultimi concerti sacri, la New Orleans Suite, la Afro Eurasian Eclipse (che rivela un approccio cosmopolita alla musica sincero e pertinente, non superficialmente e un po' furbescamente "contaminativo" come molto supposto jazz di oggi davvero avanzato per i tempi) la Togo Brava, la Degas Suite, la musica per i balletti e altro ancora sono lì a dimostrare il suo guardare sempre in avanti e oltre le categorie, l'anticipare certe tendenze che oggi sembrano comuni, il suo "avanguardismo", che certo non era di facciata e non necessariamente legato alle iconoclastie del Free o a somiglianze con Cecil Taylor (semmai è quest'ultimo ad aver somiglianze pianistiche con Ellington, non viceversa) che nulla in realtà aggiungono alla sua arte e alla sua musica. Ellington per quel che mi riguarda ha pochissimi paragoni nel jazz (giusto forse Mingus) e vorrei ricordare che la sua arte è nata cresciuta e sviluppata in quell'ambito dell'entertainment che molti ottusamente tendono ancora a distinguere da quello "artistico", in una concezione distorcente e sostanzialmente fuori dal contesto storico, sociale e culturale nel quale Ellington e l'arte jazzistica tutta hanno saputo maturare. Ellington è senza dubbio uno dei massimi geni musicali del Novecento e più passa il tempo più la cosa diventa evidente, almeno a me.

Anonimo ha detto...

molto bella davvero Springtime in africa, Webern onestamente non ce lo sento ma Debussy tantissimo (a tratti mi è venuto da pensare che stesse improvvisando su Reflects dans l'eau).
Comunque per me c'è poco da discutere sul fatto che Strayhorn abbia avuto un grande peso. Mi viene in mente che pure Gunther Schuller che è uno di quelli che vorrebbe ridimensionarlo poi tra i pezzi che esalta della tarda produzione sono pezzi di Strayhorn che sembra attribuire erroneamente a Ellington come Air conditioned jungle o Isfahan. (per quanto ne so Ellington non è stato esattamente un esempio di correttezza nei confronti del collega, attribuendosi varie volte i meriti di Sweet pea).
Ma al di là di quello molti dei pezzi più belli dell'orchestra sono stati scritti da Strayhorn(senza dimenticare che anche altri come Tizol o Mercer Ellington hanno scritto alcuni dei brani più memorabili), i due sopra come Chelsea bridge, Johnny comes lately, Raincheck, Take the A train, buona parte della Queen's suite, Star crossed lovers, On a turquoise cloud, Daydream eccetera, senza dimenticare una delle più belle canzoni americane di sempre (lush life). Direi che se il contributo di Strayhorn va ridiscusso è per dire che a tutt'oggi è ancora sottovalutato.

Antonio P.

loopdimare ha detto...

sinceramente trovo difficile prendere una posizione pro o contro il "ridimensionamento" di Strayhorn, visto che in certi momenti della produzione del duca era persino difficile capire chi dei due suonasse al piano...
Billy è stato certamente un forte stimolo per Ellington e questo penso sia un dato consolidato. d'altra parte Ellington ha dato fiducia, spazio e protezione ad un grande musicista che per motivi personali (la sua omosessualità) forse da solo si sarebbe perso per strada.
sia come sia, gli appassionati ringraziano per l'avvenuto. incontro

Anonimo ha detto...

io credo che anche senza tirare in ballo i pezzi su cui hanno lavorato entrambi o "in dubbio" basta vedere le composizioni scritte con sicurezza da Strayhorn per rendersi conto del suo valore. Sopra per esempio non ho nominato Blood count, che capolavoro non è quel pezzo?

Antonio P.

sergio pasquandrea ha detto...

a breve, su Jazzit ricorderemo Strayhorn, di cui quest'anno ricorrono i 100 anni dalla nascita.
(scusate per il piccolo spazio pubblicitario...)

Marco Bertoli ha detto...

Tutto giusto.

Mi sto domandando se «Antonio P.» non sia per caso quel mio vecchio e disperso amico proprio grazie al quale, suppergiù quarant'anni fa, cominciai ad ascoltare il jazz…

riccardo facchi ha detto...

Forse non mi sono spiegato bene. guardate che nessuno discute il valore e il contributo di Strayhorn finché è stato in vita. mica sono scemo. Il problema è esattamente il contrario, ossia era il contributo compositivo di Ellington che veniva sminuito a favore di Strayhorn e, mi spiace, ma se conoscete bene la discografia di Ellington e il catalogo delle sue composizioni, vorrei ricordarvi che Ellington ha prodotto capolavori immensi sia prima dell'avvento di Strayhorn che data 1938 o 39, adesso non ricordo precisamente, e dopo la sua morte cioè dal 1967 in poi. Le suite degli ultimi anni, ribadisco, sono dei grandi lavori che dimostrano come Ellington fosse grande e lo fosse stato indipendentemente dalla grandezza di Strayhorn. E' un dato di fatto. Certo due menti musicali del genere insieme hanno fatto faville.

Riccardo Facchi ha detto...

Tra l'altro, ricordo molto bene che ai tempi (parlo degli anni '70 italici) veniva descritta l'orchestra e il lavoro di Ellington in un quasi irreversibile declino dopo la morte di Strayhorn. Credo di aver letto anche qualcosa di Polillo sul tema, forse anche sul suo "Jazz". Probabilmente gli orchestrali erano più discontinui nelle prestazioni, anche solo per anzianità o per sostituzione (la morte di Johnny Hodges nel 1970 ha contato pure qualcosa come perdita di una voce importante dell'orchestra) La produzione successiva alla morte di Strayhorn è lì a confutare quella tesi, anche perché diverse suites dell ultimo periodo sono state fraintese, come ad esempio la Togo Brava. Del resto basterebbe un capolavoro di sintesi come la New Orleans Suite per dimostrare quel che osservavo e cioè che la grandezza di Ellington non dipendeva necessariamente da quella di Strayhorn. Il che non sminuisce minimamente la grandezza di quest'ultimo, come mi pare è stato interpretato dal mio precedente scritto.Le due cose possono stare perfettamente insieme, peraltro il fatto di entrare in un orchestra così collaudata e zeppa di grandi solisti sarà stato pure un fattore importante per lo stesso Strayhorn, per esprimere il proprio inconfondibile talento compositivo. Non credete? Posseggo qualche disco di Strayhorn da leader e francamente non mi pare che le versioni delle sue composizioni siano all'altezza di quelle esibite all'interno dell'orchestra ellingtoniana. Credo che contasse molto anche la leadership e il carisma di Ellington in tal senso. D'altra parte, sottolineavo la visionarietà del Duca, che con opere come la Latin American Suite, la Afro Eurasian e la Togo Brava si è aperto alle musiche del mondo anticipando una tendenza "globale" e "contaminativa" (in realtà provo un certo fastidio per questo termine a mio avviso oggi abusato e abbastanza improprio, ma lo scrivo per capirci) che oggi va per la maggiore. Solo che lui come tutti i veri grandi del jazz, non ha mai perso la barra della sua musica e delle sue radici musicali e non aveva certo bisogno di esporre supposti evoluzionismi linguistici o "geografici", come vedo fare e scrivere oggi per giustificare supposte nuove tendenze in ambito improvvisativo. Ellington è sempre stato Ellington e la sua musica non ha avuto e non ha bisogno di particolari etichette o categorizzazioni di sorta, come per tutti i veri grandi della musica.

Anonimo ha detto...

A Marco Bertoli: mi spiace ma non sono chi credi, quaranta anni fa io non ero neanche nelle idee dei miei genitori. Sono solo uno che segue questo bellissimo blog.
Per Riccardo Facchi: avevo probabilmente frainteso quanto dicevi, se il senso è quello di rivalutare l'Ellington successivo alla morte di Strayhorn posso tranquillamente essere d'accordo. Qualche dubbio sulle versioni dei pezzi di Strayhorn non altezza delle versioni dell'orchestra del duca, onestamente non ho ben presente tante cose ma per esempio mi viene in mente una versione di Daydream con Johnny Hodges assolutamente splendida.

Antonio P.

Marco Bertoli ha detto...

mi spiace ma non sono chi credi

Non importa, sono contento lo stesso che tu venga qui.

Anonimo ha detto...

Confesso che certi parallelismi mi lasciano perplesso, non perché siano azzardati ma perché temo che possano essere fuorvianti. Non vedo particolari motivi di merito o meraviglia o interesse o stimolo nel fatto che Ellington possa mostrare tracce di Debussy nei suoi lavori, o che certi procedimenti da lui adottati nella trasformazione del materiale possano, pur senza avere relazione diretta alcuna, rievocare il puntillismo weberniano: se invece di Ellington avessimo affrontato Boulez, a certe particolarità non avremmo fatto alcun caso, tanto sarebbero state scontate. Perché, dunque, per un compositore africano-americano dovremmo evidenziare un ipotetico deambulare fra Debussy e Webern, aldilà del fatto che certi materiali e certe tecniche compositive erano, negli anni Sessanta, non solo alla portata di qualsiasi compositore ma, addirittura, potevano dirsi per certi versi persino obsoleti, soprattutto in forme così –diciamo- “evidenti”. La generazione di Ellington era stata allevata, nel contesto della borghesia africano-americana, secondo criteri educativi vittoriani, dal punto di vista morale così come culturale: erano i criteri somministrati anche da istituzioni come la Fisk University, la Howard University, la Atlanta University. Nel momento in cui gli artisti africano-americani iniziarono a misurarsi con il cosiddetto “cultural marketplace” dovettero fare i conti con il concetto di “rispettabilità”: la maggior parte delle famiglie della piccola e media borghesia africano-americana delle ultime decadi dell’Ottocento e delle prime decadi del Novecento impartiva un’educazione che non privasse i propri figli di una “rispettabilità” di fronte ai bianchi. In tale ambito la conoscenza delle tradizioni culturali bianche era piuttosto diffusa, soprattutto in un contesto famigliare come quello in cui era stato allevato Ellington. Si auspicava che gli artisti neri concorressero a creare un’arte “alta”, il che spiega anche una diffusa ostilità della borghesia nero-americana nei confronti del jazz. continua

Anonimo ha detto...

Il vaudeville di Ethel Williams e Johnny Peters, il pianismo di Louis Chauvin, l’arte recitativa di Bert Williams e quella cinematografica di Oscar Micheaux, le acrobazie di un pioniere dell’aviazione come Hubert Julian, sono stati tutti passi di un costante processo di “abitudine all’infrazione”. Detto questo, l’armonia del Prélude à l'après-midi d'un faune, per quanto superata, imperava nella musica americana degli anni Venti e Trenta, soprattutto negli arrangiamenti da Henry L. Alford in poi, includendo buona parte della produzione di Broadway e delle orchestre fra la Jazz Age e la Swing Era. Quello che rendeva “diversa” la musica “d’evasione” americana dell’epoca era, aldilà delle varie influenze dall’operetta inglese alla marcia di John Philip Sousa, proprio la progressiva penetrazione di elementi africano-americani (che si espandevano, prima ancora dell’affermarsi del jazz, grazie ai compositori che crearono nel corso della seconda metà dell’Ottocento quel fenomeno che fu denominato “Black Broadway”). Che Ellington potesse conoscere Debussy (più ancora che Delius), o meglio l’armonia debussiana, non dovrebbere sorprendere. Che ne facesse uso negli anni Sessanta del Novecento… dovrebbe sorprendere di più. E’ certamente più significativo l’uso dell’armonia di Skrjabin in Ernesto Nazareth che non in Antonio Carlos Jobim, tanto per fare un altro esempio in un contesto diverso quanto affine.

Anonimo ha detto...

Il vaudeville di Ethel Williams e Johnny Peters, il pianismo di Louis Chauvin, l’arte recitativa di Bert Williams e quella cinematografica di Oscar Micheaux, le acrobazie di un pioniere dell’aviazione come Hubert Julian, sono stati tutti passi di un costante processo di “abitudine all’infrazione”. Detto questo, l’armonia del Prélude à l'après-midi d'un faune, per quanto superata, imperava nella musica americana degli anni Venti e Trenta, soprattutto negli arrangiamenti da Henry L. Alford in poi, includendo buona parte della produzione di Broadway e delle orchestre fra la Jazz Age e la Swing Era. Quello che rendeva “diversa” la musica “d’evasione” americana dell’epoca era, aldilà delle varie influenze dall’operetta inglese alla marcia di John Philip Sousa, proprio la progressiva penetrazione di elementi africano-americani (che si espandevano, prima ancora dell’affermarsi del jazz, grazie ai compositori che crearono nel corso della seconda metà dell’Ottocento quel fenomeno che fu denominato “Black Broadway”). Che Ellington potesse conoscere Debussy (più ancora che Delius), o meglio l’armonia debussiana, non dovrebbere sorprendere. Che ne facesse uso negli anni Sessanta del Novecento… dovrebbe sorprendere di più. E’ certamente più significativo l’uso dell’armonia di Skrjabin in Ernesto Nazareth che non in Antonio Carlos Jobim, tanto per fare un altro esempio in un contesto diverso quanto affine.

Anonimo ha detto...

Tutti i compositori africano-americani della generazione di Ellington e anche prima si sono trovati di fronte al dilemma di quanto africano-americani era lecito che si dimostrassero per ottenere “credibilità” e “rispettabilità”: che all’analisi dei testi possano emergere somiglianze e similitudini con autori accademici europei non dovrebbe stupire, perché certi procedimenti hanno letteralmente fatto parte della quotidianità dei compositori del Novecento a qualsiasi latitudine (se non erro, David Schiff faceva notare che parte del materiale tematico di Ko-Ko di Ellington, ad esempio, deriva dalla Quinta Sinfonia di Beethoven), in modo conscio o meno. Buona parte del Novecento americano, più che essere dominato da creatori “maverick” come Henry Cowell o Charles Ives, ha subito l’influenza radicale del serialismo schoenberghiano e del neoclassicismo stravinskiano (che qualche segno su Ellington direi che, pur per vie traverse, lo ha lasciato), tralasciando, ad esempio, l’esempio, che forse sarebbe stato ben più utile e fecondo, di Béla Bartók: perché mai Ellington non avrebbe dovuto assorbire determinati elementi? Il jazz, più ancora di altri linguaggi africano-americani (per molti versi l’arte di Ellington è certamente più lungimirante di quella di coevi compositori accademici africano-americani pur di valore, basti pensare a William Grant Still o a Henry Burleigh; l’opera di Florence Price, ad esempio, che pure è notevolissima, è ben più “europea” di qualsiasi composizione ellingtoniana di ampio respiro) ha saputo operare una “traduzione” (molto più che un atto di “sovversione”, come per troppo tempo abbiamo voluto vedere: mi ricordo i divertenti tempi in cui si volevano trovare affinità fra i Klavierstücke di Stockhausen e il pianismo di Cecil Taylor, senza avvertire che certe pratiche linguistiche potevano ben approdare a risultati esteriormente simili o vagamente simili provenendo da percorsi, tradizioni, intenzioni, scopi e desideri affatto diversi, agendo in un contesto in cui ormai determinate pratiche e determinati processi erano ormai globalmente in contatto fra di loro. Pochi linguaggi hanno saputo approfittare del progresso tecnologico come il jazz, che nasce in concomitanza con nuove frontiere della comunicazione) straordinaria della propria contemporaneità, basandosi sulla propria tradizione estetica e fornendo così alla cultura americana una chiave di lettura e di affermazione unica, innovativa, originale della “diversità” del Nuovo Mondo. continua

Anonimo ha detto...

Una lezione profonda, radicale, che ha coniato un nuovo modo di pensare, peculiarmente americano, di cui, dopo decenni e decenni trascorsi all’ombra dell’oppressiva cultura europea, hanno fatto e fanno uso molti compositori americani di qualsiasi estrazione etnica. Oggi non deve stupire che vi siano compositori africano-americani, da Anthony Davis a George Lewis, da Tyshawn Sorey che conoscano meglio Stravinskij o Boulez di James Brown, e compositori bianchi che abbiano assimilato molto più Muddy Waters che non Schönberg o Ellen Taafe Zwilich. C’è una differenza enorme, che so, fra una compositrice come Jessie Montgomery, una come Regina Harris Baiocchi e un compositore come Daniel Bernard Roumain: il jazz, più di qualsiasi arte africano-americana, ha saputo varcare le più diverse soglie linguistiche, rendendo la diversità e l’unione fra le diversità una pratica indispensabile più ancora che lecita e contribuendo a definire in modo inequivocabile l’identità culturale americana. Certamente, Ellington ha saputo operare una sintesi di vasto respiro che ha pochissimi rivali e che pure ha saputo operare senza discostarsi dalla fisionomia esteica tradizionale africano-americana (non v’è dubbio che vi è molto di Ellington nel pianismo di Cecil Taylor, come vi è moltissimo di Monk, soprattutto vi è un senso della tradizione in Taylor che per molto tempo è stato sottovalutato): le tracce possibili e plausibili di Debussy o di Webern alla fine non sono che occasionali e forse interscambiabili orpelli, riccioli barocchi di un linguaggio volutamente composito e trasversale al più alto e ineluttabile grado.